Una voce tonante risuonò dall'esterno della torretta dell'M26 alla quale fece eco lo sparo di un potente cannone. Attraverso le feritoie, Luger vide un cratere aprirsi di fronte ai cingoli e fece arrestare immediatamente l'avanzare del mezzo.
- Questo era un avvertimento - fece ancora la voce. - Al prossimo movimento ostile colpiremo le taniche di carburante!
- Chi siete? - tuonò Mauser all'altoparlante. La risposta arrivò subito e dalla direzione della voce misteriosa che si perdeva nelle tenebre si accese un enorme riflettore, che puntato contro le feritoie del veicolo quasi accecarono il povero Luger.
- Niente domande - ribadì nuovamente. - E uscite con le mani in alto.
Alexey Borodin si fece largo nell'interno angusto del possente mostro d'acciaio e consultò Londsdale: - Cosa proponi, Stratega?
Egli riflettè attentamente e alla fine rispose: - Esco io. Voglio te e Nikolaj al cannone, Mauser alla mitragliatrice pesante. Appena uscito, localizzerò le armi anticarro dei nostri amabili interlocutori e vi darò un segnale azionando una volta la radio se è meglio venire a patti con loro, due volte per segnalare la loro incapacità di nuocerci.
Infilò la sua pesante Mauser C96 nella fondina sulla schiena e si fece largo tra Alexey e Jensen. Girò il portellone ed uscì.
Fuori pioveva, ma dalla coltre del buio si era aperto il cono di luce, intensissima, del riflettore, la cui luce straziò le sue iridi. Tuttavia, vide, in una postazione vicino al faro, un cannone M3 e due uomini, di cui uno in piedi con un megafono e l'altro ateggiato in una strana posa, imbracciante un fucile di qualche vecchio modello che Xavier non riconobbe.
L'M3 era un cannone obsoleto, forse non sufficente per la corazza dell'M26. Potevano rischiare? Tutto dipendeva dalla sua conoscienza balistica. Mentre scendeva dalla torretta, riparandosi gli occhi con la sinistra, la destra toccò due volte il pulsante "PULL" del walkman.
Una volta sceso la luce del faro si abbassò e due uomini armati di Springfield gli furono addosso in un attimo. Indossavano pesanti pastrani civili.
Uno di loro gli infilò la canna del fucile nell'intestino, mentre l'altro gli controllava lo zaino: trovarono la Mauser, le munizioni e il binocolo, quando la voce di Mauser proruppe dall'altoparlante.
Stavolta era alla postazione armata della torretta: - Fermi - urlò, con una mano che portava il microfono alla bocca - Questa è una M2 Browning calibro 50, che con un paio di colpi perfora anche la vostra anima e vi trascina all'inferno a prendere Belzebù per la coda.
L'uomo al cannone spostò il grosso ma vecchio pezzo d'artiglieria verso la torretta, ma un paio di colpi della mitragliatrice che bucarono lo scudo blindato lo fece desistere dall'intento.
Approfittando della distrazione, Xavier si liberò della minaccia: non essendo adeguatamente preparati, i due uomini non resistettero ai colpi violenti dell'irlandese. Entrambi caddero a terra e Londsdale potè impadronirsi di uno degli Springfield, puntandolo agli increduli avversari vicino al riflettore. Alexey si fece dare l'altoparlante e pronunciò freddamente: - Adesso, se li rivolete, vi allontanate da quel gingillo e posate, con delicatezza, i vostri fucilini.
In un attimo la situazione si era rovesciata. Ora gli occupanti del Pershing avevano il loro cannone da 90 sugli ometti che prima dettavano legge.
Xavier lasciò cadere il fucile per terra e raccolse la sua Mauser, ripulendola dal fango.
Tutti, tranne Nikolaj e Borodin, scesero dal carro, imbracciando le armi: quattro potenti armi da fuoco puntarono alla nuca dell'uomo con il megafono.
- Spegnete quella cazzo di luce! - fece Jensen. L'ordine fu subito eseguito. Con una torcia puntata in faccia allo sconosciuto, Xavier interrogò: - Chi siete?
L'interrogato non si scompose e strizzando gli occhi rispose: - Chi sarete voi, semmai! Fortuna che non siete dei nazi! Sono lo sceriffo di New Anchorage, dannazione!
Xavier riabbassò la torcia. - E come mai tanto sospettosi? Non vedete le insegne delle Forze Corazzate Americane?
- No, no, c'era troppo buio e sembravate a bordo di un Tiger. Che ne sapevo io, che l'esercito americano (o quello che ne rimane) possedesse ancora un tale giocattolo?
- E, in nome di Dio, cos'è New Anchorage?
A quest'ultima domanda di Londsdale rispose il boato di un fulmine, che squarciando le tenebre illuminò per un attimo le mura di una città, seppellite dalla polvere e dalle pareti rocciose.
Lo sceriffo, ricomponendosi nel suo spolverino, rispose: - Questa, è New Anchorage.
Xavier Londsdale & Mathias Mauser' Novels
sabato 27 aprile 2013
venerdì 19 aprile 2013
Il Risveglio di Siegal
Come al solito, John Siegal si era svegliato in ritardo, tuttavia non si preoccupò minimamente del suo capo, che si sarebbe limitato ad un rimprovero, dal momento che, una volta, l’aveva visto scambiarsi effusioni con una dipendente polacca.
Il suo capo non era tedesco, tuttavia nonostante fosse solo un americano era vietato a tutti avere rapporti sessuali con persone di colore, ebree, rom, zingare o di etnia polacca. Era previsto un lustro a contare i propri passi nei lager, a chi contravveniva a tali leggi sulla Razza. Naturalmente c’era di peggio: un uomo poteva essere di simpatie comuniste e allora… per lui la GePo avrebbe tenuto una ricostruzione facciale tramite saldatrice e tenaglie…
Si alzò sbadigliando: la sua stanza era di tre stanze: un bagno, un soggiorno-camera da letto e una cucina. Il bagno erano a malapena due metri quadrati. Per certe persone sarebbe stato un lusso, ma per John Siegal, che si ricordava ancora i bagni nelle vasche, le docce e altre diavolerie moderne, quei due metri quadrati erano inammissibili. Un gabinetto, un lavello e… basta.
C’erano state, a dire il vero, alcune migliorie da quando gli zeppelin tedeschi e le navi da guerra si erano stagliate lungo l’orizzonte il giorno dell’Invasione, come le auto che non emettevano gas nocivi e i frigoriferi ecologici. I nazisti si erano parecchio preoccupati sul buco dell’ozono e temendo che i raggi UVA potessero nuocere alla Razza Pura avevano obbligato a tutti di convertire le loro auto a benzina o diesel in auto ad idrogeno.
Tuttavia i lati negativi erano tantissimi: innanzitutto la privacy degli americani di ceto medio era praticamente scomparsa. Nelle case di ogni persona, tranne i politici, erano presenti due tipi di telecamere, chiamate “occhi elettronici” poiché il microfono che ruotava all’interno del “bulbo oculare” dell’obbiettivo dava l’idea di una pupilla: uno di questi occhi era piazzato con la consapevolezza dell’inquilino, sopra il camino o sul soffitto, mentre altri, invece, erano nascosti. Non serviva intimare al proprietario dell’abitazione l’uscire dalla casa al momento dell’installazione degli “occhi” nascosti, poiché bastava uscire a fare la spesa, a camminare al Golden Gate Park o a lavorare, per permettere agli uomini della TeNo (ovvero l’Unità Tecnica del Reich, la stessa che montava gli impianti di sicurezza nel Reichstag) di piazzare nella più totale efficacia telecamere minuscole tra le assi del pavimento o nelle serrature delle porte.
Dopo aver eseguito il perfetto saluto mattutino all’occhio elettronico “ufficiale”, si diresse verso il bagno: là cercò il rasoio Bismarck di fattura tedesca (uno degli effetti più positivi dopo l’invasione tedesca dell’America era appunto l’invasione di prodotti tedeschi anche sul mercato, spesso si dimostravano migliori dell’industria americana) ed iniziò a radersi.
Nelle strade di San Francisco, anche là nel Ghetto 17, degli altoparlanti intonavano qualche melodia di Wagner. Davanti allo specchio John iniziò a radersi, nella luce soffusa del sole, i raggi che filtravano attraverso le veneziane verdi alla finestra.
Teneva accesa una radiolina, anch’essa tedesca, sul lavabo, ascoltando un po’ di musica per non doversi sorbire l’ennesimo inno nazista.
Nell’America nazista, naturalmente, non era consentita la contestazione: tuttavia, mentre nei primi anni la Gestapo si era semplicemente arrogata il diritto di irrompere nella casa di un simpatizzante di sinistra, ucciderlo davanti ai figli e poi trascinare via il cadavere per renderlo parte delle fondamenta di qualche edificio, ora la tecnica si era resa più elaborata: si sarebbe data la colpa a lui di qualche attentato terroristico, oppure sarebbero venute fuori le prove di qualche legame con i ribelli rossi, e nel giro di poche ore la sua faccia sarebbe finita sulle pagine del Völkischer Beobachter, in televisore e il suo nome urlato in tutti i canali di tutte le radio fino a convincere la popolazione di una realtà inventata. Dopodiché, si sarebbe proceduti ad ucciderlo, stavolta con il consenso degli americani.
Questo era perlomeno il metodo più usato: per i pesci più piccoli poteva capitare un incidente sulla strada o nella vasca da bagno, tanto per non creare troppo sospetto tra i civili di un’uccisione… cioè, suicidio, di un uomo sconosciuto ai più.
I partigiani ora erano chiamati terroristi, banditi o estremisti politici. Eppure continuavano a combattere contro il nuovo padrone di casa, rimettendo dieci dei loro uomini per la morte di un soldato nazista. Una congrega di topi che cercava di rosicchiare le caviglie al padrone di casa, ecco cos’erano.
Eppure continuavano ad attaccare le ambasciate, le truppe di soldati, le stazioni radio…
Poi c’era il terrorismo passivo, ovvero coloro che incitavano i cittadini al terrorismo, trasmettendo su canali radio proibiti. Una volta in Europa si ascoltava radio Londra, ma ora Londra non esisteva più, al suo posto c’era un cratere radioattivo di un’atomica, e ora al posto di radio Londra ecco il canale di Patriot, l’uomo misterioso…
C’era chi vociferava, nelle pause pranzo in fabbrica, che Patriots era un soldato della Guardia Nazionale il giorno prima, un soldato russo il giorno dopo, un tedesco reietto il giorno dopo ancora… cambiavano sempre le versioni e c’era da impiegare molta immaginazione per trovare nuove ipotesi ogni dì.
Personalmente, Siegal era un convinto anti-nazista, oltre che per motivi razziali, e aveva l’importante dono di ricordarsi com’era l’America di prima: non un posto migliore come politica, era da vent’anni uno schifo, ma come stile di vita… probabilmente era uno dei pochi luoghi liberi rimasti, pensava tra sé e sé.
Molta gente aveva dimenticato com’era una volta l’America, credendo nel sogno di ricchezza e di potere dei tedeschi. Questo perché la maggior parte degli abitanti di San Francisco era stata perseguitata e uccisa, fatti lavorare fino allo stremo nei campi di prigionia, oppure… oppure finivano nei campi della GePo, e semplicemente finivano di esistere.
In ogni caso, alla fine della corta guerra, tre quarti della popolazione della grossa città costiera (e probabilmente lo stesso anche a New York, Chicago, Los Angeles, Washington…) avevano finito di esistere e al loro posto erano arrivati gli americani dell’entroterra, che non avevano visto in modo serio la guerra. Ma Siegal l’aveva vista, invece, il duro, opprimente, triste volto della guerra, e ancora oggi si sforzava di ricordare, ricordare per non dimenticare…
giovedì 11 aprile 2013
Il ricordo di Siegal
John
Siegal si era svegliato alle 6.30, l’ora ideale per prepararsi con tutta calma
e andare a fare colazione al bar prima
di raggiungere il posto di lavoro al municipio di San Francisco.
Si
diede un lavata con acqua gelata, per svegliarsi bene prima di affrontare la
giornata e, dopo un colpo di rasoio, indossò il nuovo completo che la moglie
gli aveva comprato: pantaloni e giacca grigia con camicia azzurra e cravatta
blu, il tutto abbinato ad un paio di lucide scarpe nere. Di solito non amava
vestirsi così; un paio di jeans e una camicia semplice bianca erano più che
sufficienti, tuttavia quella mattina era particolarmente importante: prima di
andare in pensione il sindaco della città aveva deciso di promuovere alcuni
impiegati particolarmente dediti al lavoro e John era tra di essi. Da semplice
ragioniere sarebbe dovuto diventare direttore del servizio economico cittadino:
un incarico di grande responsabilità, ma piuttosto remunerativo e non intendeva
fare una brutta figura mostrandosi con abbigliamento casual.
Dato
un bacio all’amata moglie Sarah, era uscita di casa, portando con se la
ventiquattr’ore che la moglie gli aveva regalato una volta che aveva saputo
della promozione.
-
Quanto amo quella donna – aveva pensato John mentre si avviava al bar poco lontano
da casa sua, dove era solito fare colazione.
John
Siegal aveva avuto la grande fortuna di ereditare dai genitori, che lui
personalmente aveva disprezzato per il loro scarso tatto, una casa in mattoni
vicino alla splendida Russian Hill.
L’unico
problema era che doveva prendere la moto per giungere al municipio. Con i
prezzi del petrolio proveniente dalla Russia (e che i tedeschi centellinavano
agli americani) che salivano, non era molto economico. Anche la motocicletta
Trimph Thunderbolt alla quale tolse le catene era un ricavato dell’eredità dei
suoi genitori.
Fece
la discesa che lo portava sulla strada e si diresse fino alla sua piazza
preferita.
San
Francisco era una città viva, che pulsava di vita propria e lui amava compiere,
di giorno in giorno una routine ben precisa, rifare le cose di settimana in
settimana, con la soddisfazione di vedere che il bar dove faceva colazione, la
fontana dove gli innamorati buttavano le monetine, l’edicola dove comprava il
giornale erano sempre là.
E
sebbene potesse sembrare stupido agli occhi di un estraneo, dal momento che per
andare al lavoro serviva un mezzo di locomozione, a John Siegal sembrava logico
potersi concedere un quarto d’ora d’aria vicino al ponte del Golden Gate,
all’ombra della sua struttura e dei cedri dalle fronde agitate dal vento.
Arrivato dopo pochi minuti di corsa, legò la moto ad un lampione in ferro
battuto (ah, quanto gli piaceva quel lampione!) e si passò una mano sul vestito
spiegazzato.
Edicola,
in latino, significa tempio e quella nella piazzetta era proprio una splendida
edicola, in stile art decò, con vetrine dai vetri puliti. L’edicolante lo
salutò e per un po’ parlarono dei risultati della partita di baseball appena
terminata, e alla fine gli fece uno sconto, seppur minimale, sul quotidiano.
Ringraziando
Dio che il tempo non era affatto nebbioso ma ben soleggiato, John si diresse
radioso al bistrot. Sally, la proprietaria del locale, lo accolse con un
caloroso sorriso, mentre reggeva una tazza di caffè destinata al neoletto
Direttore.
-
Ciao John!
-
Ehilà, Sally!
-
Allora, come mai quell’aria tanto allegra? Per non parlare del vestito… quasi
non ci credevo, a vederti vestito così quando sei entrato”
Siegal
si tolse gli occhiali da sole Ray-Ban Aviator e rispose alla ragazza: - Ehi,
stai parlando con il direttore dell’economia di Frisco! Stamattina mi
promuovono e non voglio sfigurare davanti agli alti papaveri. - Poi afferrò la
tazza e cominciò a sorseggiare il liquido ambrato. Mentre beveva, sentiva nel
caffè, proveniente dalle Blue Mountain, e nel cornetto alla crema che stava
mangiando, un sapore nuovo, un sapore di…vittoria. Dopo tanti anni era riuscito
finalmente a farsi strada tra la gerarchia municipale, scavalcando gente che
lavorava lì da molto più tempo che lei e, soprattutto, gli odiosi raccomandati.
Già, quelli non mancano mai, pensava John mentre masticava un boccone della sua
colazione. Gente che senza alcun merito si arrogava il diritto di poter
comandare per il semplice motivo di essere di famiglia benestante o per antiche
tradizione di famiglia. Un po’come il nostro caro presidente, diceva spesso
John: un ricco mafioso (almeno così dicevano i suoi detrattori) che con i suoi
ideali stava facendo affondare il paese in un baratro senza uscita. In tre anni
di presidenza, non aveva fatto niente per migliorare la situazione creatasi con
la crisi del ’29.
William
D. Upshaw, uscito chissà come vincitore nella disputa Hoover-Roosevelt, aveva iniziato, nel 1941, quando gli indici di
immigrazione erano saliti alle stelle, a fare piazza pulita degli elementi
potenzialmente difficili, ovvero dei musulmani, degli irlandesi e degli
italiani, spedendoli per qualsiasi tipo d’infrazione nei carceri. E quando le
prigioni americane non bastarono più, nel 1942 Upshaw spedì un milione e mezzo di
persone a scontare le loro pene (spesso ergastoli) in Sudamerica, pagando al
Messico e al Brasile una cifra esorbitante di dollari per “l’affitto”.
Ma
in fondo, “questo è l’unico modo per salvaguardare il nostro paese”…
Dannato
ipocrita! Disse quasi ad alta voce John. Tuttavia si trattenne. Dopo aver
finito il cornetto , si diresse alla cassa per pagare il conto. Estrasse il
portafogli, quando, improvvisamente, si udì un boato nel cielo, come un fulmine
lontano. I clienti del locale guardarono verso le finestre, in cerca di qualche
spiegazione, ma senza riuscire a trovare risposte efficaci a quel fenomeno. –
Un fulmine a ciel sereno? – fece un tizio grasso abbassando il giornale che
aveva comprato all’edicola là davanti.
Sally
posò il vassoio con le tazze di caffè e si guardò attorno, con aria smarrita: -
Forse.
-
Oppure un aereo che ha rotto il “muro del suono”… - azzardò un ragazzo che fino
a pochi secondi prima stava facendo una partita a scacchi con una scacchiera
automatica.
Strano
fenomeno, pensò Siegal, ma poi se ne dimenticò in fretta.
In
realtà il boato era stato prodotto da una bomba nucleare che cinque secondi
prima era esplosa nell’alta stratosfera. Già durante i test nucleari di Los
Alamos gli americani si erano accorti di una cosa piuttosto strana:
l’esplosione di una bomba nucleare disabilitava i sistemi dei primi e
rudimentali computer che usavano per raccogliere i dati riguardanti le
conseguenze dell’esplosione.
Tuttavia
lo scopo di una bomba atomica era più circoscritto al bombardamento che ad
altri compiti, per gli americani. I tedeschi avevano invece pensato ad un altro
compito per l’ordigno: sparandone alcune ad alte altitudini, scoprirono che le
radiazioni e le molecole d’aria creavano un forte campo elettromagnetico in
grado di rendere inservibili l’utilizzo di missili a guida radar…
Siegal
diede i soldi a Sally, quando una possente esplosione scosse il locale,
mandando in frantumi i vetri e i bicchieri. Alcuni avventori furono feriti dai
frammenti taglienti di vetro, un dottore che si trovava li per la colazione,
appena ripresosi dal trauma, si precipitò sui feriti, bendandoli con quello che
aveva a disposizione: tovaglie, tovaglioli…
Eccellente
organizzazione, pensò John mentre si tastava un orecchio che era rimasto
sconvolto dal boato della deflagrazione. Probabilmente era un medico che aveva
prestato servizio nell’esercito.
Ma
cos’era successo? Gli astanti si guardavano attorno spaventati e feriti da
schegge di vetro…
Subito
tutti pensarono ad una probabile fuga di gas che avesse fatto esplodere qualche
tubatura, ma un volta corso sulla strada John comprese tutto: la cima del
palazzo la cui base fungeva da bistrot era esplosa, con pennacchi di fumo che
uscivano dall’alto. Poco dopo, almeno altre dieci esplosioni ferirono le
costruzioni, talvolta a distanza di pochi metri talvolta a distanza di isolati
interi: il municipio, la stazione e la centrale elettrica furono i primi
palazzi ad esplodere. John non riusciva a comprendere cosa fosse successo e,
sotto shock, rimase a fissare il vuoto all’interno del bar, mentre altri
clienti si precipitavano fuori in preda al panico.
Poi
un ragazzino che reggeva un pacco di giornali buttò a terra le riviste e additò
un punto lontano sull’Oceano Pacifico. Subito una folla di gente scese sulle
strade e si diresse a guardare verso l’orizzonte: anche i vigili del fuoco che
erano appena arrivati mollarono le pompe dell’acqua per guardare l’Inizio di
tutto.
Una
quarantina di puntini sull’acqua si rivelarono dopo pochi secondi navi da
guerra eruttanti fuoco, mentre alcune sirene, che prima sembravano le solite
sirene da nebbia del porto, gettavano nell’etere i loro urli. Poi il cielo fu
coperto da uno stormo di aerei ed enormi dirigibili, anch’essi armati di
cannoni.
Si
udivano in lontananza le sirene d’allarme della centralina radar antiaerea,
mentre la Guardia Nazionale, armata alla bell’ è meglio si precipitava fuori
dalle caserme sulla riva per cercare di contrastare gli attaccanti che fino a
quel momento non si erano ancora presentati di persona. All’esterno la
situazione era spaventosa: la gente correva come impazzita, le auto erano
abbandonate in mezzo alla strada mentre la polizia cercava invano di mantenere
l’ordine…
La
fine del mondo, pensò stravolto John.
Improvvisamente,
il suono delle bombe fu sostituito da un rombo prolungato e particolarmente
rumoroso. Siegal guardò istintivamente il cielo e, appena si poté capacitare di
ciò che vedeva, cadde in ginocchio, più confuso che spaventato. Un nugolo di
dirigibili decorati dalla svastica nazista stavano scaricando centinaia di
paracadutisti. Il loro numero era sconvolgente, tanto che, insieme ai
dirigibili, riuscivano ad oscurare il Sole. I paracaduti facevano concorrenza
con le nuvole. Buffo, pensò, ancora incapace di credere in quello che accadeva.
Buffo fu l’unico modo per descrivere quello che accadeva, data l’incredulità di
Siegal.
Non
era possibile. In tutti i suoi trentacinque anni non si era mai prospettato
l’idea di un’invasione, eppure ora vedeva, sentiva, udiva la guerra che
prendeva corpo e diventava una realtà tangibile.
Siegal
si alzò in piedi. In testa aveva solo un pensiero: sua moglie. Sganciò la moto
dal lampione, a cui era esplosa la cupola contenente la lampadina e si diresse
verso casa. Dapprima fu difficile farsi strada tra le persone, ma più
all’interno la città era deserta: alcuni si erano rifugiati nelle metropolitane
e altri, più stupidamente, si erano gettati a guardare le corazzate tedesche
che entravano nella baia di Golden Gate. Corse più velocemente che poteva per
raggiungere casa sua, ignorando le urla dei feriti, gli strilli dei soldati
pronti a combattere, aggirando le auto abbandonate e le barricate di fortuna.
Fu
nell’avvicinarsi alla Russian Hill che vide per la prima volta sua i tedeschi. Siegal
pensò che dovessero essere i meno esperti poiché erano soli, isolati,
probabilmente al di fuori della loro zona d’atterraggio. Ma poi capì che a loro
non importava essere in tanti, poiché erano addestrati magnificamente e
impeccabili nelle loro divise nere, dove la fascia rossa, bianca e nera ne
segnalava l’appartenenza alle SS. Uno diede ordini agli altri ed aprirono il
fuoco contro un camion verde pieno di soldati americani. Il fragore delle armi,
nonostante la distanza, era tremendo. Ma ancora di più lo era vedere i soldati
dispensare morte dappertutto. I proiettili scaturiti dalle loro Maschinen
Pistole MP-50 fracassarono i finestrini del camion e bucarono le gomme, ruppero
il radiatore. In pochi secondo la traiettoria del veicolo militare deviò e il
camion si schiantò contro un gruppo di persone che fuggivano, uccidendole.
Cercando
di non urlare dalla paura, Siegal deviò il suo percorso e scappò via,
costeggiando la Fishermans’ Wharf per poi risalire. Un grosso aereo, senza
motori e spinto da due reattori a getto, un grosso moscone nero, sfrecciò verso
l’entroterra.
In
poco tempo raggiunse la sua abitazione, ma quello che vide non era quello che
sperava. Quella che prima era una villetta di San Francisco, ora era un cumulo
di rovine che bruciavano lentamente ed il cratere di una bomba dove prima c’era
la cucina spiegava il perché. Corse dal vigile del fuoco che cercava di
spegnere l’incendio, chiedendogli se erano riusciti a salvare la moglie, ma
quello, abbassando gli occhi, fece cenno di no con la testa e proseguì il suo
lavoro.
Per
John era la troppo; non poteva credere che l’amabile moglie Sarah fosse morta.
Fissava lo sguardo sulle rovine , aspettandosi di veder Sarah uscire, ma sapeva
che era impossibile. Si abbandonò ad un pianto isterico: urlava e singhiozzava
rabbiosamente, un altro vigile del fuoco che tentava di consolarlo. Poi, con
l’aiuto del collega, trascinarono via il povero Siegal, in preda ad una furia
pari a quella di un animale mutilato.
Riuscì
a calmarsi solo cadendo in una sorta di stato catatonico e pensò che
semplicemente era andate, cercò di accettarlo…ma non riusciva…
I
nazisti raggiunsero anche quell’isolato e i pompieri si diedero alla fuga,
mentre un massiccio gruppo di marines che mai erano scesi sul campo di
battaglia crearono un perimetro di difesa lungo la strada, utilizzando le loro
jeep militari M38 come barricate.
In
mezzo al caos, completamente assordato dalle esplosioni e dagli spari, il calmo
John Siegal raggiunse la metro, ultima linea difensiva che l’esercito aveva
creato per permettere l’evacuazione dei civili. Mentre aspettava si riprese
dallo shock e riiniziò a piangere. Dopo un po’ smise e asciugandosi gli occhi
gonfi e arrossati si richiuse nel mutismo, osservando la stazione della metro
riempirsi di uomini, donne e bambini. Cercò di non pensare agli anziani, dei
quali i più sarebbero rimasti abbandonati nelle case. Dal mondo esterno, che
era separato da una grossa porta a due ante, giungevano esplosioni e gridi. Un
ventenne con le maniche della camicia arrotolate cercava di ridarsi coraggio
mormorando sommessamente: - Non è vero, è solo uno scherzo, non è vero…
Anche
Siegal continuava a crederlo. Fra poco la moglie sarebbe entrata da quelle
porte e tutto sarebbe tornato come prima. Ma non riusciva a crederci se non in
modo superficiale. Dopo qualche ora salì su un treno, insieme ad altri
disperati che, come lui, avevano perso
tutto. Casa, famiglia… un futuro in cui sperare.
La
battaglia di San Francisco fu breve. I nazisti, con forze superiori, più
moderne ed efficienti, avevano occupato la città, uccidendo o catturando le
forze dell’esercito che ancora resistevano.
La
guerra era iniziata.
Nei
cieli i solchi dei Me 262 erano sempre meno rari, nel mare del porto le
corazzate tedesche a propulsione nucleare non temevano ne le incursioni dei
caccia F-86 Sabre americani, che ad ogni attacco venivano falciati come grano
da una falce, abbattuti dalle salve di missili che partivano dalle postazioni
corazzate, tantomeno le pattuglie marine che venivano speronate e affondate
sotto le loro chiglie possenti. A terra, i paracadutisti fecero radere al suolo
interi quartieri e crearono rudimentali piste d’atterraggio con i macchinari
rubati agli americani per fare le strade: facendo così permisero l’atterraggio
di molti alianti giganti, grossi come balenottere, chiamati Mammut, grossi
velivoli di legno prodotti in serie dalla Junker, più ingombranti e vulnerabili
dei “Giant”, ma che riuscivano a trasportare un carro armato Tiger a viaggio.
Una volta atterrati, gli alianti venivano smontati in poco tempo e portati alle
corazzate leggere, che a differenza di quelle pesanti avevano sacrificato parte
dell’equipaggiamento e il reattore nucleare per una maggiore capacità di
carico.
Con
questa tattica, i tedeschi riuscirono in pochissimo tempo ad occupare metà San
Francisco e a distruggere ogni forma di resistenza nella zona.
Il
giorno dopo, dei soldati armati ma americani svegliarono bruscamente sia John
Siegal che tutti gli altri e li fecero caricare in un
lunedì 11 febbraio 2013
Bozza - Atlantide
1. Entrata in scena
Era ormai tarda sera quando
Xavier Londsdale decise di tornare nel suo appartamento a Vauxhall Square. Era
sbronzo e i pensieri gli giravano per il cranio come enormi calabroni,
procurandogli fitte di dolore che lo scuotevano fino alla base del collo e gli
facevano pulsare in modo esagerato le tempie ai lati della testa.
Barcollando, si poggiò ad una
cabina del telefono e riprese fiato per un attimo. Il suo corpo robusto era
madido di sudore ed era assai stanco, come se avesse corso per giorni di fila.
Invece aveva solo bevuto
qualche bicchierino di troppo e ora ne riceveva le conseguenze.
Decidendo di ripromettersi di
non fare più le ore piccole alla sera, si rizzò dritto su tutta la sua altezza
e riprese a camminare verso casa sua, concentrandosi al massimo per non perdere
la strada. Un incrocio, poi il viale vicino al Tamigi, tutto alberato, e poi un
paio di vicoli bui per accorciare la distanza.
Xavier non aveva mai avuto
paura o anche solo timore del buio: il buio era il suo ambiente, poteva
muoversi silenziosamente e non visto con l’agilità di un gatto, nonostante
l’ubriachezza e il sonno.
Lui e il buio formavano un
tutt’uno, impenetrabile e oscuro manto gelido di nero pesto e gradazioni di
grigio scurissimo.
Era proprio il buio che gli
permetteva di riacquistare lentamente lucidità, mentre una brezza fresca gli
dava un conforto sempre maggiore, seppure fosse ancora molto stordito dai
cocktail ad alto tasso alcolico bevuti al bar.
Raggiunse una panchina e vi
sedette sopra, stravolto. Che stupido che era stato. Proprio un gran pezzo di
scemo ad accettare quella competizione all’ultimo bicchiere di vodka.
Tuttavia aveva vinto un bel
po’ di soldi, anche se una parte li avrebbe spesi per pagare l’affitto e tutti
gli altri vincoli ai quali era legato se voleva continuare a vivere come una
persone per bene e non sotto un ponte.
Si concentrò e strizzando da
ogni cellula del suo corpo ogni stilla di concentrazione si rialzò e
s’incamminò verso casa. All’improvviso udì un urlo.
Non era raro che le
prostitute dei sobborghi londinesi urlassero per l’eccessiva impetuosità del
loro cliente, ma era assai strano che l’urlo di una malafemmina fosse uguale a
quella di un uomo che viene passato sotto torchio.
Lui era tranquillo,
appoggiato ad un lampione e con tutta la libertà di tornarsene a casa
fregandosene di quell’urlo. Anzi, qualsiasi persona con un’intelligenza come la
sua avrebbe chiamato la polizia e lasciato a loro la patata bollente. Per un
attimo tenne in considerazione l’idea, ma poi ci rinunciò.
Eppure qualcosa lo spinse a
mettere la mano sul calcio della Luger dietro la schiena: la sua pistola era
stata costruita in Svizzera, con lamiere ad alta qualità, una tacca di mira a U
invece che a V e due canne. In quel momento ne montava una da 6 pollici, comoda
per essere nascosta sotto un maglione e abbastanza potente per strappare via il
cuore a qualsiasi figlio di buona donna si mettesse sulla sua strada. Il
modello di Xavier aveva una lunga storia dietro di se, che risaliva alla guerra
e all’Operazione Tonga, era diventata un prolungamento del braccio destro del
suo possessore, che in quel momento stringeva con forza il calcio dell’arma, in
legno pregiato e con l’incisione accurata di una tarantola nera.
Con circospezione, Xavier si
avvicinò al vicolo. La pistola balzava da un’ombra ad un’altra con molta
rapidità, mentre l’uomo cercava disperatamente di riacquistare lucidità di
pensiero.
Perché lo faceva? La domanda
gli turbinava nella mente. Forse per quella vecchia storia di Brenda, la sua
ultima ragazza. In proposito Xavier aveva regole ben precise, forse nate dalla
sua religione, il cristianesimo: per lui, diversamente da molti altri uomini,
le donne erano una parte importante della propria vita e non un semplice
passatempo, un oggetto con il quale divertirsi e poi disfarsi con la stessa
facilità con la quale un bambino butta via una macchinina che non gli piace
più.
Xavier credeva alle relazioni
serie e per questo c’e n’erano state ben poche, nella sua vita: dopo Brenda,
era rimasto un cuore solitario.
L’aveva conosciuta in un pub
francese, dove quella meravigliosa donna cantava per distrarre i soldati dagli
orrori della guerra. In poco tempo lei l’aveva notato e riservato speciali
“riguardi” nei suoi confronti, ma in seguito tutto aveva assunto una piega
molto diversa da quella che Xavier s’immaginava. Aveva disertato, spacciandosi
per morto, dall’esercito inglese e aveva passato alcune fantastiche settimane
con Brenda, nel piccolo appartamento di Byrley. Poi, una notte qualcosa aveva
fatto uscire Xavier da quella casa per andarsi a comprare un pacchetto di
sigarette. Uscendo, Brenda aveva scherzato: - Mi raccomando, non sparire per
dieci anni!
Xavier era andato con tutta
tranquillità all’altro lato della strada ed era entrato nella tabaccheria di
fronte al’appartamento. Il tempo di chiedere una stecca di sigarette e un boato
scosse l’edificio, rompendo i vetri. Xavier si tagliò il dorso della mano
sinistra con una scheggia e la cicatrice non scomparve più, rimanendo nascosta
tra le vene verdastre. A fatica si era alzato e aveva visto il proprietario del
negozio con un frammento di legno, probabilmente ciò di quanto rimaneva della
porta, conficcato nella gola.
In preda all’angoscia più
tremenda era uscito dal locale impugnando un revolver calibro .38 del deceduto
negoziante, cautamente. La strada era piena di soldati in divisa, divise
grigie.
In mezzo alla piccola strada
si faceva largo un grosso veicolo, un Tiger, un carro armato talmente grosso da
riuscire a malapena a passare tra gli edifici che costeggiavano la via. Con
orrore Xavier aveva visto il cannone, enormemente potente, verso l’appartamento
di Brenda. Poi un boato tremendo aveva fatto quasi perdere i sensi al debole e
disperato uomo, nascosto dietro le macerie.
L’appartamento si distrusse e
il tetto franò dove fino a pochi istanti prima c’era un muro portante.
Brenda era morta con una tale
velocità che non se ne era probabilmente resa conto.
Invece Xavier aveva assistito
a tutto e, vigliaccamente, si era dato alla fuga, fino a recuperare un’uniforme
e ad aggregarsi nuovamente all’esercito inglese, che era allo sbando, sulle
Ardenne.
Aveva finito là la guerra ed
era in seguito ritornato in Inghilterra.
Poi, verso il 10 Giugno 1950,
si era dovuto trasferire dalla Gran Bretagna per scampare alla guerra di Corea,
rifugiandosi in Sud America, con il suo amico più caro, Mathias Mauser.
Nonostante avesse quasi
quarant’anni l’addestramento militare da SAS, al tempo della Seconda Guerra
Mondiale il corpo speciale più duro ed esclusivo, l’aveva abituato a mantenersi
in forma, a mangiare poco e bere molta acqua (ed alcolici anche di più), fumare
molto (non certo un bene, ma innegabile abitudine che veniva presa quasi
inevitabilmente nelle trincee durante i momenti di tensione) e soprattutto lo obbligava
a mantenersi in forma, facendo boxe e jogging alla mattina.
Allo stesso tempo le sue ossa
diventavano sempre più fragili, col passare degli anni, sotto il peso di una
massa muscolare che non accennava a diminuire.
I capelli neri tagliati sale
e pepe e la barba mal rasata (volutamente) lo facevano apparire una persona
grezza e rozza, ma anche molto più duro di quello che era in realtà e, se
associata al portamento militare che aveva conservato, dissuadeva facilmente i
ladruncoli.
Stringendo la Luger nella
mano si maledì per non aver preso la Mauser 712 che possedeva, una pistola
molto meno comoda da portare in un giro notturno ma molto più precisa, potente
e temibile, dall’aspetto che era a metà tra una semplice semiautomatica e un
mitragliatore.
Tuttavia la Luger era quasi
ugualmente precisa, più comoda e poteva quindi sparare con più facilità
rispetto alla grossa pistola automatica.
Avanzò nel buio. Niente si
muoveva davanti a lui. Fece un altro passo e nel mentre che i suoi occhi si
abituavano alla scarsità di luce nel vicolo, vide un angolo a gomito che
conduceva ad un altro vicolo, molto più stretto e piccolo.
Si addossò contro il muro e,
smettendo per qualche secondo di respirare, ascoltò i rumori che provenivano da
pochi metri rispetto alla sua posizione, calmando nel contempo i battiti
cardiaci.
Una volta che era in uno
stato di relax, per così dire, fisico e mentale, balzò dal suo nascondiglio
stendendo la pistola verso il cielo (mai puntare una pistola davanti a se: un
aggressore abbastanza preparato poteva colpire la mano stringente l’arma prima
che si riuscisse a sparare) ed intimando un “Fermo!” piuttosto convincente.
Da una figura contorta per
terra che sarebbe potuta sembrare un sacco di letame in una stalla si alzò una
figura con grazia, nonostante sembrasse lievemente impacciata da uno
spropositato zaino che aveva sulla schiena e che ne deformava l’ombra.
Stringeva in mano un coltello, che scagliò rapidamente verso Xavier. Scelta
sbagliata, pensò e schivò il prevedibile colpo dell’aggressore.
Una volta fatto ciò stese la
pistola e tenendola appoggiata la braccio sinistro per stabilizzarla aprì il
fuoco, colpendo l’uomo alla spalla, dove aveva mirato.
L’uomo incassò il colpo e
cadde all’indietro. Xavier si lanciò verso di lui. Tuttavia, se la forza
muscolare, l’intelletto e la buona mira erano sue buone qualità, non era una
persona ragionevole quando l’adrenalina gli entrava in circolo.
Commise l’errore, in quel
momento, di abbassare la guardia e l’attaccante con la spalla ferita sfruttò la
situazione. Rialzatosi in piedi, puntò la sua arma e fece fuoco verso
Londsdale, che venne colpito di striscio.
Una forza stranissima lo
buttò per terra, con il fianco dolorante, come se fosse passata una lama
rovente sulla sua pelle. Poi, come tutto era iniziato, tutto terminò. Quando
Xavier aprì gli occhi, dell’aggressore non c’era traccia. Un professionista, a
giudicare dalla rapidità. Ma perché l’aveva lasciato in vita e com’era sparito
così in fretta?
La prima risposta la formulò
lui stesso mentre si alzava, con una mano sulla ferita: con una spalla ferita e
il colpo di pistola che aveva svegliato metà Londra, non era conveniente
controllare se anche il “salvatore” era deceduto.
Sentì una sirena. Poi due.
Dolorante, fece il percorso all’indietro e, con lentezza e calma infinita,
raggiunse casa sua, un appartamento di cinque piani vicino alla St. Paul’s Cathedral.
Salì lentamente le scale e,
trovata la porta della sua abitazione, ci si fiondò dentro, sbattendosi la
porta alle spalle.
Si buttò sul letto con solo
un paio di mutande e una canottiera addosso e controllò sotto la luce di una
potente lampada la ferita che aveva riportato: era la ferita più strana che
avesse mai visto. Anche se non era grave era molto estesa, come se a sfiorargli
il braccio fosse stata una pallottola grande come un pallone da rugby. In tal
caso lo spostamento d’aria gli avrebbe strappato il braccio. Per fortuna non
era stato un cannone a provocare quella ferita, ma questo non lo rassicurava:
che tipo di pistola poteva essere a procurare ferite del genere?
Simili ustioni, anche di
grado più avanzato le aveva viste in Normandia, dove i tedeschi (e gli
americani) utilizzavano il lanciafiamme per ripulire vaste zone molto
velocemente.
Ma in fondo perché se ne
preoccupava?
Non era certo affar suo. La
vittima era già morta al momento del suo arrivo e la polizia avrebbe fatto il
resto del lavoro. Lui aveva tentato e aveva fallito.
Perché così era la vita
reale: non sempre si poteva vincere.
Il rumore delle scarpe che
correvano lo aiutava a trattenere un po' di quel fiato che aveva in corpo per
respirare. Un passo dopo l'altro, i suoi polmoni perdevano sempre più ossigeno,
con il solo risultato di vedere la Ford che si allontanava sempre di più sotto
la pioggia. Il suo bersaglio si muoveva a tutta velocità per le strade di
Parigi nella Ford e il corpo di Xavier, al contrario, rallentava, stanco e
affannato. Il suo addestramento mi aveva sviluppato da ragazzo gracile che era,
ma erano passati anni, almeno quindici da quando si buttavo dagli aerei in
guerra.
Ora vedeva l'auto che si
allontanava sempre di più, sparendo nella cortina alzata dalla pioggerellina
primaverile, senza dargli la possibilità di fermarla in alcun modo. La sua
pistola era casa, la moto BMW riposava sul marciapiede dopo che era stata
speronata dalla più possente Ford e le gambe stavano lentamente abbandonando il
suo corpo. Eppure continuava, ostinatamente, a camminare, cercando di isolare
la stanchezza delle sue gambe in un angolo di quarantena del cervello. Passo
dopo passo, mentre l'auto si allontanava sempre di più. All'improvviso, come in
sogno, l'auto si fermò. Gomme a terra? Problemi al motore oppure serbatoio
vuoto?
Fu proprio mentre il suo
corpo riprendeva energie al pensiero di riuscire a prendere Dublonsky, che riprese
a correre. Riprese a correre finché non vidi l'auto che eseguiva una inversione
ad U e tornava indietro. Stavolta con il finestrino oscurato abbassato e un
tubo di metallo che spuntava fuori...
Il piombo vomitato da un'arma
è sicuramente la causa del 90 % degli insuccessi dei suoi colleghi e dei
poliziotti, così si buttò a terra dietro ad una Cadillac vuota e parcheggiata,
ancora prima che la tempesta rovente facesse saltare via pneumatici, portiere e
cofano. Come immaginava, proiettili Dum-Dum, ovvero ad espansione. Il nemico
peggiore per un uomo senza protezioni: certo, ora la Cadillac lo proteggeva, ma
se si fosse trovato davanti a quei proiettili in corsa, di lui sarebbe rimasto
molto meno che un colabrodo. Meno male che l'auto era vuota.
Il gesto di Xavier era stato
dettato dalla disperazione: non che si fosse buttato al riparo dietro a quella
vettura perché era vuota e così non avrebbe coinvolto civili nella sparatoria,
bensì era stato un semplice caso fortuito.
Non credeva che si sarebbe
preso la briga di cercare un auto vuota, con un gangster che mi stava puntando
il suo fucile mitragliatore in faccia.
La raffica di mitra,
finalmente, tacque e lui sgattaiolai fuori, sempre tenendosi al riparo dell'auto
bucherellata. Con orrore vide che dal motore usciva una leggera colonna di
fumo: quei pazzi avevano toccato il filo della benzina. Rotolò e si spostò fin
dietro ad una bancarella, una mossa da soldato che gli costò uno scricchiolio
doloroso alla schiena. Dal motore dell'auto uscivano ora due lingue di fuoco. Rimpianse
di aver dimenticato in albergo la sua Luger a canna lunga per il tiro di
precisione o la Mauser, oppure (anche di più) il suo fucile di precisione
costruito sulle sue esigenze.
La macchina che seguiva tornò
ancora indietro e dal finestrino, per la seconda volta, una eruzione di fuoco
distrusse la bancarella. A salvarlo, ora, non furono le lamiere della Cadillac,
che minacciava di esplodere, ma i pochi colpi del caricatore della
mitraglietta, che con un tossicchio si esaurirono. Appena in tempo.
Uscì fuori dal riparo e corse
stavolta verso la macchina, sperando di non doversi imbattere in un'altra arma.
La vettura accelerò per sottrarsi dalla sua azione, ma ormai aveva agguantato
il finestrino oscurato abbassato e Xavier era riuscito ad attaccarsi alla
macchina. Una mossa dettata più dalla disperazione che dalla sua volontà
propria. Con la mano libera riuscì ad afferrare per la canna il fucile
mitragliatore Thompson e a toglierlo dalle mani del gangster. Ringraziò il
costruttore dell'auto di aver messo finestrini antisfondamento all'auto, perché
in caso contrario la curva che il guidatore della Ford eseguì per farlo
ruzzolare al suolo lo avrebbe buttato sulla strada. Ora aveva il Thompson in
una mano, ma dato che era scarico lo lasciò cadere sull'asfalto: nuovamente con
la sinistra libera aprì la portiera. O meglio, Londsdale l’aprì, ma il calcio
del passeggero che sferrò ad essa la spalancò e Xavier si aggrappò
affannosamente con ambedue le mani. Il passeggero, lo stesso che lo aveva sparato,
prese una pistola e gliela puntò sul naso. Proprio in quel momento, l'autista
della macchina decise di svoltare bruscamente verso destra per far cadere quel
disgraziato attaccato alla portiera, cosa che consentì al colpo della pistola
di assordargli le orecchie, mancandolo, però, completamente.
L'improvviso movimento della
Ford, purtroppo, fece scricchiolare la portiera. Le giunture di essa si ruppero
e Xavier rovinò al suolo. Neanche a volerlo, ebbe la fortuna di trovarsi sopra
la portiera e non sotto.
Uno stridio di clacson lo
risvegliò dal momentaneo stordimento e lo fece alzare a carponi: appena in
tempo per vedere due fanali avvicinarsi alla sua figura. Con un balzo si spostò
dalla traiettoria e ripeté un movimento simile per sfuggire ad una moto, che
oltre a sfiorarmi si fermò vicino a lui.
Una voce gli raggiunse
all'orecchio: - Ti serve un passaggio?
Era una voce che conosceva da
almeno trent'anni e girandosi sapeva già chi trovarsi di fronte: - Era ora che
arrivasse la cavalleria! - rispose, mentre il suo più grande amico Mathias
Mauser gli porgeva la sua arma preferita, una pistola Makarov.
Saltò sulla sua BMW, subito
dietro di lui, con la pistola carica nella destra, mentre con un rombo del
motore, la moto si sollevò sulla ruota posteriore e sfrecciò attraverso la
strada deserta, sotto lo sguardo di varie persone sporte dalla finestra che
gridavano frasi volgari e accusatorie in francese, una lingua troppo sonora e
musicale per essere utilizzata con effetto.
Il sole era appena spuntato
dalle nubi e la pioggerellina era finita.
La Ford non doveva aver fatto
troppa strada e, comunque, senza una portiera non sarebbe passata troppo
inosservata. Dopo trecento metri percorsi alla massima velocità, Mathias riuscì
a raggiungere l'auto e, come previsto, un gangster si sporse con la pistola in
una mano e cominciò a fare fuoco. Mathias, prontamente mosse la moto a
sinistra, in modo da schivare il proiettile e di portarsi fuori dalla
traiettoria di tiro dell'uomo.
Xavier rispose con la Makarov
del mio amico, ma mancò completamente il bersaglio.
Si andava troppo veloci per
poter inquadrare bene il bersaglio. Un'altro criminale si sporse dall'auto,
stavolta imbracciando un mitra. La raffica colpì l'asfalto intorno alle ruote
della moto, ma il piombo che Londsdale inviò contro l'auto e la prontezza di
riflessi di Mathias fece fare cilecca al nemico. Presa la mira, sparò a quello
con la pistola. Urlò e ricadde a peso morto sulla strada. La cosa non lo
attristì neanche un po'.
La scarica di adrenalina
azzerò tutte le sue stanchezze. Mathias accelerò ancora, affiancando la Ford.
Dublonsky stava urlando qualcosa a quello col mitra, incazzato come una bestia.
Quello provò a puntarci l'arma addosso, ma Xavier non gliene diede il tempo e
con un calcio che sbilanciò leggermente la moto, gli fece volare il mitra di
mano. Dublonsky gridò al suo autista: - Buttali fuori strada!
L'autista sterzò tanto
bruscamente da far uscire da dove non c'era più la portiera il gangster del
Thompson. Mathias eseguì anche lui una violentissima curva, la moto s'inclinò a
tal punto che toccai l'asfalto con il ginocchio, procurandomi una sbucciatura,
ma evitammo la carrozzeria dell'auto. La Ford proseguiva cercando di seminarci:
con un rombo di motori il muso dell'auto sfondò la vetrina di un grosso
supermercato di vestiti, fortunatamente quasi vuoto. Le poche donne che stavano
osservando i vestiti urlarono vedendo entrare l'auto nel negozio, seguita a
ruota da Xavier e Mathias sulla moto.
La Ford distrusse qualche
decina di manichini mentre cercava la strada per uscire dall'altra parte del
supermercato. Sfondò un'altra vetrina ed uscì dalla parte opposta del negozio.
Ma i due inseguitori erano ancora alle loro costole. Dublonsky si sporse, aveva
in mano qualcosa che sembrava una mitragliatrice leggera tra le braccia. Una
raffica tremenda costrinse Mathias a girare, mentre il piombo rovente colpiva
la strada. I passanti urlarono.
Davanti alle due vetture
c'era un'altro negozio di moda identico a quello appena "visitato":
con la Makarov Xavier sparò al vetro e la moto sfrecciò dentro. Mathias la
portò orizzontale, compiendo una sgommata nel magazzino a 90° e inclinandola
nuovamente di molto così che ambedue le ruote colpirono la vetrina
orizzontalmente. Un attimo per raddrizzare la moto, girare e si ritrovarono
dall'altra parte dell'isolato rispetto a Dublonsky.
- Accelera, Mathias: se
riusciamo a girare in tempo l'isolato fossimo tagliare la strada alla macchina!
– gridò all’amico. Mathias gli mostrò il pollice in segno di affermazione e
accelerò ancora, facendo salire il contatore di velocità a centocinquanta
chilometri all'ora. Evitò per il rotto della cuffia un'auto della polizia e
girò alla fine dell'isolato. Ecco di nuovo la Ford: Xavier sparò verso di loro
e scorse Dublonsky imprecare in russo.
Dietro la moto la macchina della
polizia che avevano schivato accese le sirene e cominciò ad inseguirli. Appena
vide le pistole nelle mani aprì il fuoco.
Parigi, città calma e
tranquilla, era segnata dal piombo, quel giorno.
Ora erano tra due fuochi, ma l'adrenalina
nel sangue di Mathias aveva lo stesso effetto di tre litri di vodka. - Tieniti!
- gli urlò e accelerò ancora. Il contagiri del motore della moto si stava
avvicinando alla linea rossa: 210 chilometri orari. La macchina di Dublonsky
era a cinque metri. Non bastarono due nanosecondi che i due amici erano talmente
vicini alla macchina da poterla toccare tendendo un braccio, ma il russo alzò
la mitragliatrice: a quella distanza anche un bambino sarebbe stato in grado di
colpirli, ma non solo lui era armato. Alzata la pistola Xavier fece fuoco: il
proiettile colpì l'uomo al braccio e lo fece rintanare dentro la macchina.
Ormai avevano la vittoria in
pugno. Almeno così pensò, prima che una pallottola non gli sfiorasse
l'orecchio: i poliziotti cominciarono a urlargli dietro, ma a così poca
distanza dall'obbiettivo ne' Xavier ne' il suo amico volevamo rinunciare. Mathias
sfrecciò davanti alla Ford. L’irlandese ebbe il tempo di mirare al motore
dell'auto di Dublonsky e quella si fermò all'improvviso. Doveva aver colpito
qualche parte dell'auto molto importante.
In effetti erano poche le
parti ad essere invulnerabili all’arma.
L'auto si piantò e il
tergicristallo venne sfondato dalla testa dell'autista, catapultato fuori. La
polizia però rappresentava ancora un problema. Dublonsky era kaputt, ormai, che se ne occupassero i
piedipiatti. Ora toccava ai due scappare. La macchina di essi si fermò a
soccorrere Dublonsky e l'autista (che l'inferno li danni), ma subito dopo
un'altra macchina con i contrassegnata gli tagliò la strada. Mathias imprecò e
sterzò. Davvero, la sua guida spericolata stava facendo salire la bile di
Xavier alla gola. Chissà da chi aveva imparato...
Girò intorno alla rotonda, in
modo che la macchina della polizia ci impiegasse più tempo per girare,
lasciandogli un notevole vantaggio.
Poi imboccò una strada che
dava sul fiume Senna. Potevano vedere il ponte Saint Michel. La macchina
continuò a seguirgli, ma ormai avevano almeno cento metri di vantaggio.
Continuarono a scappare. Le
sirene, da una diventarono due, poi quattro ed infine una mezza dozzina. Una
frase incomprensibile in francese intimò loro di fermarsi, ma Mathias aveva
altre intenzioni. Sterzò, salì sul ponte Sant Michel spiccò un balzo
incredibile: le gomme si sollevarono e toccarono il suolo solo cinque metri più
in là, superando con il salto una macchina della polizia.
Quando atterrarono, sperarono
che le gomme non fossero scoppiate. Speranza esaudita. Ripresero la fuga,
Mathias raggiante, mentre Xavier avevo disegnato in volto il terrore vero e
proprio.
- Eccoci a destinazione -
disse Mathias lasciandolo scendere dalla moto. Mai fu più felice di toccare
terra. Davanti a lui c'era la sua moto. La tirò su, l’accese dopo qualche tentativo
ed infine sfrecciarono via, fra le strade ora assolate di Parigi. Missione
compiuta.
2. Ritorno a Londra
Erano passati tre mesi da
quando Xavier era stato per l’ultima volta a Londra e se la ricordava, forse
anche a causa del fatto che lui l’aveva visitata in Autunno, ben più triste e
misteriosa di quella che si presentava ai suoi occhi in piena estate.
Naturalmente non era facile poter cogliere tutta la bellezza della città mentre
sfrecciava con la sua moto per le strade assolate, completamente assente: era
rivolta a ben altro, la sua mente.
Cose del tipo: perché Mathias
mi ha chiamato d’urgenza?
Xavier non lavorava spesso
con la polizia, ma in quel caso era quasi stato costretto: Scotland Yard aveva
fatto pressione sull’Interpool perché bloccassero il conto bancario di
Londsdale con la scusa di fare certi accertamenti sulla dichiarazione dei suoi
redditi, ma in realtà il messaggio era stato ben diverso, del tipo “o torni in Inghilterra o rimani senza un
soldo”.
Naturalmente con la sua
professione di nullafacente che faceva, non poteva sicuramente permettersi un
medio tenore di vita senza un soldo.
Ci mise pochi minuti per
raggiungere l’imponente torre dell’orologio: un cordone di sicurezza passava
intorno ad un’area brulicante di “bobbies” in divisa. Dal mucchio selvaggio
emerse la figura familiare di Mathias, che si diresse immediatamente da Xavier
camminando velocemente.
Indossava abiti puliti ed
intonsi, ma spiegazzati, come se vi avesse dormito dentro per qualche giorno di
fila.
- Ehilà Mathias. Come sono le
prigioni inglesi? – esordì l’irlandese, con un sorriso vago.
- Uno schifo. Il pasto è
pessimo e al posto della cameriera c’è un tizio alto che dispensa botte a piene
mani… anzi, con entrambe le mani. E te, invece, come te la passavi in Francia?
- Bene. Là il cibo è
nettamente il migliore di quello inglese e le cameriere sono più attraenti.
Mathias fu indeciso se
prenderlo a pugni o a calci, ma poi rise e gli stritolò la mano in una presa di
ferro. – E’ bello riaverti a casa, ogni tanto!
Si avvicinarono al luogo
tagliato fuori dalla marea umana di curiosi che gironzolavano in cerca di una
storiella da raccontare al pub.
Un uomo era naturalmente
steso per terra, come da copione, con la differenza che era stranamente grasso:
o meglio, appiattito al suolo come se fosse stato investito da uno schiacciasassi.
Probabilmente era il cappotto pesante a trattenere le budella e le viscere che
non si erano riversate al suolo.
Xavier osservò il Big Ben che
torreggiava su di loro e proteggendosi gli occhi con una mano, disse: - Un volo
fuori programma?
- Fuori programma si, ma la
caduta è stata l’ultima dei suoi problemi. Si chiamava James Power, a quanto
risulta sui documenti, amministratore della Kendall Associates, una delle più
potenti multinazionali inglesi. Il che ci porta al primo mistero – disse indicando
il quadrante del grosso orologio che torreggiava su di loro. – Se era una
persona così importante come mai si trovava lassù? Neanche il suo lavoro nella
K.A. lo giustifica. Tuttavia questo non è il nostro enigma più grosso, quanto
un altro – e fece per togliergli il cappello che gli copriva il cranio.
Xavier lo fermò, cercando di
distrarlo per non scoprire che cosa ne era stato della testa del malcapitato. –
Aspetta, parlavi di un problema suo più spinoso, prima. Power non è morto per
la caduta?
- Ci stavo arrivando. No, non
è morto per quel motivo, bensì per un altro. – e sollevò il cappello di feltro.
Xavier rabbrividì: in guerra era stato partecipe di molte morti violenti,
alcune causate da lui altre dai suoi alleati o dai nemici che combatteva, ma il
sangue gli faceva sempre una certa impressione, se l’adrenalina non gli aveva
già ottenebrato la mente. Quello che rimaneva della testa del deceduto non era
un bello spettacolo, ma era tuttavia priva di orrore.
Rimaneva solo il cranio di
Power, annerito come se fosse stato infilato in una stufa. I capelli, la pelle
e gli occhi dovevano essere stati bruciati al momento di… che cosa?
- Sembrerebbe un colpo a
bruciapelo – commentò Xavier, tranquillizzato dall’assenza di sangue o cervella
sparse intorno alle ossa.
- Impossibile: nessuna vampa
di fuoco di qualsiasi arma portatile è così vasta da incenerire la faccia di
una persona. Solo un cannone potrebbe averlo fatto, ma questo è impossibile.
Chi lo avrebbe portato lassù, e come? E non c’è neanche un buco in tutto
l’osso. All’uscita della canna, la velocità di tutti i proiettili esistenti al
mondo è talmente alta da far esplodere il cranio.
- Un lanciafiamme? Oppure
anche solo una bomboletta di spray infiammabile… - ipotizzò l’altro, cercando
di avvicinarsi il più possibile con gli occhi.
Mathias assunse
un’espressione contrariata: - Sembra difficile dato che i vestiti non sono
minimamente bruciacchiati, ma è pur sempre possibile. Difficile ma possibile.
Ci avevo già pensato in effetti, ma la cosa è talmente strana…
Xavier si rialzò in piedi. La
faccia non aveva nessun odore, nemmeno quello di pelle bruciata.
- Hai notato che non puzza
nemmeno, il cranio? – chiese Mathias, come se gli avesse letto nel pensiero.
- Sì. Forse con una fiamma
ossidrica…
- Nessuna fiamma ossidrica
causa una combustione della pelle in quel modo senza intaccare anche l’osso. E
per bruciare la faccia di una persona…
- … servirebbe una fiamma
ossidrica gigante. Capita l’antifona. Piuttosto, mentre ci pensiamo su, che ne
diresti di una bistecca da Joe? E’ sempre aperto?
- Si, anche se non ho ancora
avuto l’occasione di andarci.
S’incamminarono alla moto di
Xavier, Mathias montò dietro l’amico e fecero per sfrecciare via, quando un
uomo in divisa militare si parò di fronte a loro. Stranamente non aveva la
divisa da poliziotto inglese, nemmeno quella di un alto funzionario: era di
taglio militare e sia Xavier che Mathias avevano già visto vesti del genere: un
ufficiale degli Stati Uniti d’America.
- Stop! – fece, parando una
mano verso la moto e poggiando l’altra sulla fondina della M1911 d’ordinanza.
Xavier allentò gli occhialoni
da motociclista e li tirò sulla fronte. – Cosa volete?
- Il signor Mathias è in
stato di semi-arresto. – iniziò, ma Xavier non riuscì a trattenere una risata.
- Cos’è, ve la siete
inventata adesso, questa? Mathias Mauser è un cittadino inglese e ha il libero
diritto di andare dove gli pare.
- Questo l’ho dicono i
poliziotti inglesi, ma io sono americano e quindi ho dato ordine ai miei MP di
vigilarvi. Più volte avete causato problemi gravi alle nostre forze armate ed è
ancora in corso un’indagine riguardo al fatto che voi siete gli unici sopravvissuti
di un gruppo di trenta soldati americani che sono entrati con voi nella foresta
amazzonica e non ne sono più usciti.
- Il nostro racconto è già
stato scritto sui rapporti: i vostri soldatini sono stati attaccati da dei
trafficanti di droga mentre noi eravamo in perlustrazione.
L’ufficiale non venne
ingannato così facilmente e continuò nella sua intimidazione: - Sono qui per
rappresentare il governo degli Stati Uniti. Questa faccenda è ancora poco
chiara: Mathias sa già tutto e ve lo spiegherà al più presto, spero. In ogni
caso, se non vi presenterete alla sede di Scotland Yard, ritenetevi agli
arresti.
Si tolse dai piedi e Xavier
accese il motore, ricordandosi di sputargli alle spalle appena quest’ultimo non
poté vederli.
- Che stronzo! – sibilò
rimettendosi sugli occhi dallo sguardo glaciale gli spessi occhialoni da
motociclista.
Invece, Mathias sembrava
molto intimorito per l’apparizione dell’uomo. Evidentemente sapeva molte più
cose su quella faccenda di quante Xavier se ne potesse immaginare.
Riaccese la moto e partì in
piena velocità per le strade londinesi, ora leggermente più frequentate, in
direzione del porto.
Nei docks londinesi, il porto
si confondeva con i bassifondi, che erano cambiati di poco dalla metà
dell’ottocento, quando l’espansione demografica e la rivoluzione industriale
gettarono molte persone nei quartieri più miseri e poveri.
Tra le fogne a cielo aperto e
le catapecchie degli scaricatori di porto, piccole e maleodoranti, abitavano
gli eredi dei “sonnecchiatori”, ladri che fingono di dormire per rubare i
bagagli dei turisti appena scendono dalle navi, falsari, tagliagole di ogni
risma e relitti della società.
In quel microcosmo della
malavita si poteva denotare come i periodi del colonialismo e
dell’imperialismo, due guerre mondiali e la tecnologia moderna non avesse
cambiato tutti gli aspetti della vita dell’uomo.
Xavier si rifiutava di
colpevolizzare quei malfattori, che facevano qualsiasi cosa per sopravvivere.
Tuttavia Giuseppe Angerelli
non era uno di loro: gestiva il suo locale al meglio delle possibilità
economiche che la gente dei docks si poteva permettere.
Ma se c’era una lezione che
Mathias e Xavier avevano ben imparato era che, nell’abitare in posti così
ricchi di malavita era impossibile non cogliere qualche fugace notizia, in
particolare quella di un assassino dalle armi particolarmente strane.
Legarono la BMW con due
catene ad un lampione solitario, facendo passare il lucchetto tedesco
attraverso i raggi delle ruote ed il telaio, per impedire ad eventuali ladri di
appropriarsi dei due pneumatici.
Finito di trafficare con le
misure di sicurezza, Xavier raggiunse Mathias, che lo aspettava all’entrata del
pub di Joe. – Tu mi devi delle spiegazioni. – iniziò l’irlandese appena entrato
nel locale, ma subito vennero accolti dal basso barista italiano, un ometto
calvo e grassottello, che arrivava a stento allo sterno di Xavier. Indossava un
abito di lana, pantaloni neri e un maglione a quadri rosso e verde scuro, con
un grembiule nero legato attorno alla larga vita.
- Buongiorno, signor Xavier.
Erano giorni che non si faceva vedere. In quanto a lei, signor Mauser, ormai
stavo per perdere ogni speranza.
- Ehilà Joe. La vita corrè in
fretta e non siamo potuti più venire a causa di alcuni… impegni di lavoro.
La faccia di Joe mutò e prese
a torturarsi i baffetti neri, tirandoseli con la punta delle dita. Parlare di
lavoro denotava le differenze che c’erano tra i tre: Mathias e Xavier erano per
la legalità fino ad un certo limite, che già era esiguo di suo, mentre
l’italiano non occasionalmente chiudeva un occhio sui pestaggi che avvenivano
al di fuori del suo locale: lui non vedeva e non sentiva niente.
- Non ti rabbuiare,
mammasantissima e vai a prepararci due bistecche alla fiorentina. – chiarì
subito Mathias, più per tranquillizzare i commensali che per calmare Joe. – E
dopo vieni al nostro tavolo, dobbiamo parlare.
Con un’espressione di
rassegnazione l’italiano se ne andò nelle cucine, dopo aver dato loro un tavolo
in un angolo. I due si sedettero e per prima cosa Xavier prese uno
stuzzicadenti e iniziò a torturarsi una gengiva con esso. Era un’abitudine che
lo accompagnava sempre quando attendeva di mangiare.
Arrivò un cameriere con due
bistecche e due bottiglie di birra. Mangiarono con gusto.
Dopodiché Mathias ordinò un
bicchiere di “fil di ferro”, un alcolico italiano e si stese nello spazio che
il separé gli forniva. Xavier prese parola. – Perché gli americani
s’interessano alla cosa? Voglio dire, è su territorio inglese e la K.A. non
c’entra niente con l’US Army.
- Ci sono diverse cose che
non sai e che sarebbe impudente dire subito, vecchio mio. Ci sarà tempo di
spiegarle.
- Almeno comincia col dirmi
chi è Miller.
- Dalton Miller, la
controparte americana ai carnefici tedeschi. Era un generale durante la guerra,
con la specialità di “contenere le abitudini sociali delle persone”.
- Tradotto per noi mortali?
- Fermava i cittadini
francesi, tedeschi ed italiani che provavano a rubare cibo e medicine nei
negozi bombardati… dagli aerei di Miller. E li bloccava molte volte con gli
Sherman…
- E poi? Ora mi sembra un po’
più degradato…
- Per quel che ne so si
rifiutò di obbedire ad alcuni ordini, riguardo ad un carico d’armi che è finito
in mano ai gruppi di terrorismo tedeschi nati nel dopo guerra, i lupi mannari. Non conosco bene le
vicende che ne seguirono, ma Miller ha fatto un grosso salto all’indietro nella
gerarchia militare.
- Questo è tutto quello che
sai? – fece per dire Xavier, ma sopraggiunse un cameriere con il fil di ferro. Il
fatto che Joe non si fosse ancora presentato li insospettì, ma tutti i dubbi
svanirono quando videro il tozzo uomo apparire e avvicinarsi a loro come se
avesse l’intento di accertarsi che avessero ben pranzato. Era un attore dalle
indiscusse qualità, pensò Mathias.
- Cosa chiedete? – fece
incrociando le mani e sporgendosi su di loro.
- Informazioni – disse
Xavier. – E’ stato ucciso un uomo, mentre era sulla Torre dell’Orologio. Senza
peli sulla lingua, Joe, nascondi l’assassino? – disse, buttando lì il succo dei
suoi pensieri.
Questi fece per sbiancare, ma
immediatamente recuperò terreno: - Perché dite così, amico?
Rispose Mathias per lui: -
Immagina di essere un assassino. Non puoi certo lasciare il Paese senza subire
dei controlli prima che le acque si siano calmate. Dov’è che ti nasconderesti?
L’italiano sospirò: - Non vi
si può proprio nascondere niente, allora. Di sopra, stanza cinque.
- E’ armato? – chiese Xavier,
preoccupato del fatto che non avesse delle armi con se.
Stavolta il padrone del pub
non aveva risposte sicure per loro. – No, non lo so. Può darsi.
Mathias calcolò la
possibilità di aspettare il merlo all’uscita del locale, ma scartò subito
l’idea: quanto avrebbe soggiornato un fuorilegge latitante in quel
nascondiglio?
Lui e Xavier si sarebbero
dovuti mobilitare. – Sai se scende per mangiare, il tuo ospite?
- No, pretende che un
cameriere gli porti da mangiare nella sua stanza e non esce mai. Ha anche –
disse guardando i due sottecchi – un bagno privato… o meglio, un cesso
biologico.
-Addirittura – si finse
sorpreso Mathias. Sembrava eccessivo, ma di certo il criminale non voleva farsi
beccare sulla tazza del gabinetto dai poliziotti.
- Senti, Joe: se lo
prenderemo noi diremo che tu non c’entri niente, va bene?
Lui annuì, lievemente
attristito. Mathias e Xavier si alzarono in piedi, riassestandosi le giacche.
Mathias ne indossava una
beige chiaro sopra un maglione nero a collo alto. Alle mani, due guanti in
pelle che si era appena messo. Xavier, invece, indossava abiti completamente
scuri, dalle scarpe in cuoio alla giacca nera lunga fino alle ginocchia. Fu lui
il primo a dirigersi nella stanza cinque. Mathias dietro di lui. Attraversarono
il locale di ristoro e arrivarono alle scale. Mentre l’irlandese apriva la
porticina che conduceva alla tromba delle scale, sentì qualcuno raggiungerlo da
dietro. Era l’italiano, che gli porse, a lui e al suo amico, due pistole. –
Sono dei revolver Bodeo del 1889, appartengono alla mia famiglia da anni. –
gliele passò senza che i quattro marinai al banco, i clienti più vicini a loro,
non potessero vedere. – Io non ci ho mai sparato. Forse con voi avranno più
fortuna.
- Grazie, Joe, ti dobbiamo un
favore. – ringraziò Mathias. Si voltò e aprì la porta.
* * * *
I due controllarono i tamburi
delle pistole. Sei colpi, vecchie cartucce che probabilmente erano rimaste lì
da centocinquant’anni circa, riposavano ancora al loro posto. Erano sicuramente
state forgiate molti anni prima, con lo scopo di partecipare a duelli,
difendere un nobile dall’assalto di due morti di fame o per puro e semplice
desiderio di possedere una pistola funzionante, al tempo status symbol non da
poco. Non erano mai servite, fino a quel momento.
Mathias pareva confortato
dalla presenza delle armi, ma in realtà, Xavier che era un esperto conoscitore
di armi da fuoco aveva capito benissimo che una di quelle pistole sarebbe
potuta esplodere con enorme facilità in faccia a uno dei due. Meglio rimanere in
silenzio e non spaventare nessuno, decise: il rischio era in fondo minimo e, in
ogni caso, la sola vista delle armi sarebbe bastata a far arrendere il presunto
assassino. Lo era davvero? Era davvero lui? Non erano così tanti gli assassini
che avevano ucciso qualcuno nelle ultime ventiquattr’ore, ma il “rischio” di
sbagliare killer era comunque alto.
Male che vada,
pensò Mathias stringendo la Bodeo tra le mani, ci sarà un assassino in latitanza in meno. Ecco le porte che si
avvicinano… 1… 2… 3… 5. Ci siamo!
Fece un segno molto chiaro a
Xavier di mettersi in posizione e mentre l’irlandese si preparava ad entrare,
Mauser sfondò con un pesante calcio delle scarpe nere e con l’adrenalina a
mille, pompata dal cuore in tutto il corpo rendendo i tempi di reazione del
cervello più brevi, i due entrarono.
All’interno della stanza
c’era un letto, una scrivania, una sedia e su di essa un giovane sui vent’anni
che leggeva un libro, con una piccola abajour che lo illuminava.
- Fermo! – intimò Xavier al
ragazzotto sorpreso a leggere mentre era in latitanza.
Ma questi si riprese
velocemente ed estrasse con enorme velocità una Colt M1911 Pocket Hammer dai
pantaloni. Poveretto, non fece in tempo ad alzare l’arma che un proiettile
della Bodeo colpì la sua rotula. Rotolando come una trottola finì a terra.
Trattenendo un gemito provò a prendere nuovamente la pistola, che gli era
caduta sul pavimento. – Pessima scelta – decise Mathias e sparò in
contemporanea con Xavier. Un proiettile colpì la pistola rompendola, mentre lo
sparo dell’anglo-tedesco produsse rumore ma non causò conseguenze. Mathias si
guardò le mani e lasciò cadere il vecchio revolver. Il tamburo era esploso e
qualche scheggia era entrata nelle carni, ma per fortuna non aveva fatto ferite
irrimediabili e permanenti.
Xavier buttò la pistola per
terra e si lanciò verso l’assassino. Ma non fece in tempo a sollevarlo per il
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